Società San Vincenzo De Paoli

Federico Ozanam e i segni dei tempi

L'intervento di Maurizio Ceste

“I segni dei tempi con Federico Ozanam”: di seguito l’intervento integrale di Maurizio Ceste all’Assemblea Cittadina 2022 di Società di San Vincenzo De Paoli Consiglio Centrale di Milano OdV.

 

Ritorno alla Cattolica di Milano dopo parecchi anni. L’ultima volta fu nel 2013, nell’aula magna al convegno per i 200 anni dalla nascita del nostro Federico. Con la relazione del prof. Giuseppe Dalla Torre.

Ora torno qui con vero piacere.

Mi è stato richiesto di parlare su di un tema abbastanza complesso: “I segni dei tempi e Federico Ozanam”. Proverò allora a sollecitare alcuni spunti.

L’espressione “segno dei tempi” è posta all’inizio dell’enciclica di Giovanni XXIII “Gaudium et spes” al n. 4.

“È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche”.

Poi al n. 11 prosegue:

“Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane”.

Dal Vangelo di Matteo, 16,3

Ma egli rispose: «Quando si fa sera, voi dite: bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”.

Il problema dell’uomo, di ieri come di oggi, è che, anziché riconoscere i segni che gli sono dati, egli è sempre tentato di inventarseli e di prenderli e confezionarli su misura della propria fantasia e dei propri bisogni.

Lo stile di Dio invece è quello di confezionare segni accessibili ma non scontati.  Segni che per comprenderli, l’uomo deve uscire da sé ed entrare nell’ottica di Dio. Lo diceva anche don Luigi nell’omelia, questa mattina.

Per entravi l’uomo deve rinunciare alle proprie attese nei confronti di Dio ed accettare le attese di Dio nei confronti dell’uomo.  Un segno provoca una scelta, sconcerta le attese, le opinioni correnti. Per questo, a volte inconsciamente i segni di Dio incontrano indifferenza, disattenzione, rifiuto.

Quindi, il segno dei tempi è un segno di Dio e sta a noi di capirlo e soprattutto, accettarlo.

Con queste premesse vorrei ora affrontare il tema che mi è stato assegnato: “I segni dei tempi e Federico Ozanam”. E per questo vorrei tornare a quel giorno della primavera del 1833 (lo ricorda Federico in un discorso alle Conferenze fiorentine il 30 gennaio 1853) in cui tutto è cominciato per la San Vincenzo.

A Parigi, presso la bottega del prof. Emmanuel Bailly, sono presenti parecchi studenti della Sorbona, fra questi il nostro Federico, e stanno discutendo delle “meraviglie del cristianesimo” (sono proprio le parole di Ozanam), era una di quelle Conferenze di Storia, che già da alcuni mesi Bailly organizzava, quando ad un tratto, inaspettata la provocazione, da parte di uno studente sansimoniano (diremmo ora un socialista):

“Ma voi, voi che vi vantate cattolici, cosa fate voi? Dove sono le opere che dimostrano la vostra fede?”.

E se ricevessimo oggi questa domanda, cosa risponderemmo?

Certamente non risponderemmo: facciamo i pacchi e paghiamo le bollette, (anche se…) ma cosa risponderemmo?

Ma per il momento lasciamo in sospeso la domanda, la riprenderemo dopo.

E ritorniamo a Federico ed i suoi amici:

ricorda Federico: “Fu allora che dicemmo a noi stessi: ebbene, all’opera. E che le nostre azioni siano in accordo con la nostra fede”.

Quel “all’opera”, voleva dire: guardiamoci intorno, qual è la situazione della città?

Ma gli studenti sono molto giovani, appartengono quasi tutti alla piccola borghesia, sono arrivati dalla provincia, che è povera sì, ma non è ancora stata intaccata da quella che stava divenendo la “rivoluzione industriale”: inurbamento dalle compagne, lavoro massacrante, anche i bambini lavoravano nelle officine per 10 o 12 ore al giorno, salari bassissimi, scarsità di abitazioni, e le poche, malsane, piccole, sovra abitate, a costi esorbitanti… (niente di nuovo  ci verrebbe da dire, pensando agli immigrati respinti e sfruttati…).

Gli studenti, in verità sono un po’ sprovveduti, anche di fronte a questa realtà, non sanno che fare, qualcuno lancia l’idea di fare il catechismo…

Poi l’dea, in rue di Bac, dove c’è il convento delle Figlie della Carità, c’è una suora, si chiama Rosalie Rendu, (la beata suor Rosalie), la chiamano la mamma dei poveri… Chiediamo a lei.

Lei risponde semplicemente: Venite con me.

È così una realtà devastante di povertà si presenta agli occhi ai giovani studenti. Ma una realtà sotto gli occhi solo di chi la voleva vedere, che appare in tutta la sua drammaticità. E così inizia l’attività che ancora oggi contraddistingue le Conferenze di San Vincenzo: la visita domiciliare, quel rapporto di prossimità che aveva scandalizzato i ben pensanti dell’epoca.

La carità, nella Francia di inizio 800, era quasi esclusivamente a carico delle congregazioni religiose femminili, raramente da qualche santo sacerdote. Immaginatevi, figuriamoci lo scandalo di vedere dei giovani borghesi, studenti, andare nelle soffitte. Inconcepibile!

Ma è stato necessario un intervento terzo, per far capire ai nostri giovani fondatori, qual era il “segno dei tempi”. Lo ha fatto scoprire suor Rosalie.

Ma ritorniamo all’oggi. E vorrei soffermarmi allo studio del professor Andrea Salvini dell’Università di Pisa: “Volontari due volte”, studio che è in corso di presentazione in tutte le regioni.

Salvini afferma:

 “Dobbiamo riappropriarci del nostro ruolo socio-politico, di portatori di istanze, di advocacy, di quell’essere ponte di congiunzione tra il disagio e le istituzioni”.

Cosa ci impedisce allora oggi di “vedere il segno dei tempi”, per poter agire di conseguenza?

Lo abbiamo visto, con i nostri giovani fondatori del 1833. Pur in una situazione di povertà eclatante, c’è stato bisogno di un’auto esterno (suor Rosalie) per aprire gli occhi e capire la miseria che li circondava.

Ci dice ancora Salvini: “La complessità e l’estensione dei processi di fraglizzazione sociale hanno portato all’evidenza che nessuno dei soggetti impegnato a combattere questa fraglizzazione possa pensare di “far da sé”, senza costruire un qualche raccordo con gli altri soggetti istituzionali o del Terzo settore”.

Salvini ancora rileva come la SV ha avviato già da alcuni anni una riflessione sulle modalità per raggiungere un equilibrio tra le proprie radici storiche e le proprie caratteristiche organizzative, e le sfide provenienti dai mutati assetti economici, sociali e culturali che stiamo attraversando. Questa predisposizione a cogliere i segni dei tempi – continua Salvini – e a tradurli in scelte organizzative, costituisce, tra l’altro, una virtù espressamente indicata dal fondatore stesso sella Società, il beato F. Ozanam”.

Proviamo allora a rispondere alla domanda: “Ma voi che vi vantate cattolici, cosa fate?”. Noi ora cosa avremmo risposto ai sansimoniani?

Però vorrei che ognuno di noi, prima di rispondere faccia suo quello che ci ha chiesto il Concilio: cioè scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo.

Non ho ovviamente una ricetta su come fare, vorrei però dare qualche indicazione che secondo me può portare a interpretare il segno dei tempi.

Per prima cosa per vedere il segno dei tempi, oggi, bisogna tenere presente quelle che Salvini chiama “sollecitazioni esterne”:

  • La crescente complessità dei bisogni (specie in questo periodo post-pandemico)
  • I cambiamenti dei sistemi di welfare territoriale
  • La trasformazione del mondo del volontariato e del terzo settore, che volenti o nolenti, richiama la necessità di dover interloquire con gli altri soggetti istituzionali e del Terzo settore.

Come seconda cosa: aprirci agli altri, non chiuderci in noi stessi. Siamo i più bravi, sappiamo noi come fare… lo rileva Savini, in quelle che chiama “nicchie”, che se da una parte “promuovono coesione e inclusività, dall’altra generano una sorta di inerzia organizzativa che rende più difficile lo sviluppo di processi di innovazione e di cambiamento interno”. Abbiamo sempre da imparare dagli altri, così come Federico aveva chiesto aiuto a Suor Rosalie.

Terza cosa: cercare di cambiare il nostro punto di vista. Cambiare angolazione.

Mi viene in mente il Vangelo di qualche settimana fa, quello di Luca 19, 1-10. Zaccheo che cercava di vedere chi era Gesù, ed allora essendo piccolo di statura si arrampica su un sicomoro vederlo meglio.

Zaccheo, come dire noi oggi, non riusciva a vedere Gesù perché c’era molta folla e così per vedere meglio, senza ostacoli ha cambiato prospettiva. È salito in alto per vedere con più chiarezza senza essere disturbato da ostacoli.

Anche noi allora per vedere più chiaramente i segni di Dio, dobbiamo abbattere gli ostacoli che ci impediscono di vedere: uno per tutti: quel “abbiamo sempre fatto così”.

Come quarta cosa: affidarci sempre e comunque al Signore, allo Spirito Santo, magari con l’intercessione di Maria, di dui Federico era molto devoto.

E per concludere, come quinta cosa, vorrei citare un passo Ozanam, scritto su l’Ère nouvelle: Le cause della miseria, del 15 agosto 1848. Che ci riporta a quella richiesta di Salvini e cioè che “Dobbiamo riappropriarci del nostro ruolo socio-politico, di portatori di istanze, di advocacy”.

Scrive Ozanam: Il nostro pensiero, in realtà, è quello di iniziare e sostenere, fra i cristiani, “un sussulto di carità”, contro gli abusi che da più di cinquant’anni creano la miseria di un popolo libero… per mantenere vigile e sollecito lo zelo di tante oneste persone”.

Direi che in un momento in cui “i carichi residui” sono sempre più ingombranti, questo sussulto di carità sia quanto mai necessario.

Ho terminato. Spero di non avervi annoiato. Se così non fosse, tanto per citare un gran lombardo, “non l’ho fatto apposta!”

 

Maurizio Ceste